IL REALITY DI MATTEO GARRONE

La parola reality è entrata ormai da un decennio nel nostro vocabolario quotidiano, un termine “ipocrita” e ossimorico, che cela in se stesso il proprio esatto contrario, poiché dietro l’illusione di “realtà” che i cosiddetti reality show vogliono trasmettere al pubblico c’è invece un mondo finto e costruito ad arte, fatto di un nulla desolante che però purtroppo ha catalizzato negli anni l’attenzione di moltissime persone. Era il 2000 quando nacque la prima edizione italiana del Grande fratello e da allora i reality show, esibendo infinite volgarità sempre più assurde, si sono moltiplicati, andando in onda persino sulla televisione pubblica. La stagione televisiva appena cominciata a quanto pare farà a meno dei due capisaldi del genere, cioè Grande fratello e L’isola dei famosi, visti gli ascolti deludenti delle ultime edizioni, ma quanto fatto negli anni scorsi è stato sufficientemente deleterio per parte della nostra società.

È ciò che traspare dal bel film di Matteo Garrone, intitolato appunto Reality, una commedia grottesca premiata all’ultimo Festival di Cannes con il Grand Prix della Giuria e uscita nelle sale a fine settembre. Ambientata in un quartiere povero di Napoli, narra la storia del pescivendolo Luciano (Aniello Arena, ergastolano dal 1993, divenuto attore in carcere), il quale, avendo doti da intrattenitore, viene spinto dai figli e dai familiari che vivono nel suo stesso palazzo a partecipare alle selezioni per il Grande fratello. Tutti sono convinti che Luciano sarà fra i prescelti che prenderanno parte al programma e col passare del tempo se ne convince anche lui, tanto da iniziare a credere che alcuni responsabili del reality lo osservino quotidianamente per controllare e giudicare i suoi comportamenti. In men che non si dica, quella di Luciano diventa una vera e propria fissazione, che lo porta a trascurare lavoro e famiglia per passare le sue giornate davanti al televisore a seguire il Grande fratello, ormai cominciato senza di lui. Una fissazione tra paranoia e follia che lo conduce ad una percezione distorta della realtà, di fronte alla quale né la moglie, né i familiari, né gli amici, né i medici trovano una soluzione, fino ad arrivare allo sconfortante e tragicomico finale.

Con questo film, Garrone si conferma uno dei migliori registi del cinema italiano contemporaneo, che con acuta sensibilità riesce a raccontare per immagini vicende ben poco edificanti del nostro Paese. Già ci era riuscito con Gomorra (2008), trasposizione cinematografica del romanzo di Roberto Saviano, e con Reality colpisce nuovamente nel segno, se possibile in maniera ancora più sorprendente, facendo un ritratto impietoso di quella parte della società che è figlia del Grande fratello e dei suoi emuli. La miseria intellettuale in cui vivono i personaggi del film è ben rappresentata in diverse sequenze: significativi a tal proposito sono per esempio la scena iniziale della spogliazione, da parte dei protagonisti, degli abiti vistosi indossati per una cerimonia nuziale che sono in netto contrasto con le squallide stanze in cui essi vivono, e quella ambientata nel centro commerciale, tempio moderno per molte famiglie, in cui anche i chiassosi e ingombranti personaggi di Reality vanno in massa, trascinando un carrello stracolmo come le loro pance. Come abbiamo già detto, non sono ricchi, anzi, appartengono alla classe medio-bassa, eppure – eccezion fatta per Luciano e la moglie – sono tutti sovrappeso, bimbi compresi, simboleggiando così una pienezza materiale inseguita da molte persone in questa epoca, cui fa da contraltare una spaventoso vuoto intellettuale e culturale. È così che l’insulso vincitore dell’ultima edizione del Grande fratello diventa per loro un vero e proprio mito da adorare, per cui persino i bambini – e questa è forse una delle cose più tristi – stravedono. E quando Luciano, con moglie e figli, torna a casa dopo aver sostenuto il provino negli studi di Cinecittà, parenti e condomini lo applaudono trepidanti, poiché questo primo contatto con la televisione lo ha già reso ai loro occhi un personaggio, destinato ad ottenere fama e denaro, gli unici valori in cui  questi personaggi sembrano credere.

Un messaggio positivo arriva però dalla storia personale dell’attore protagonista, Aniello Arena, il quale, finito in carcere a 24 anni per aver commesso un omicidio, grazie al teatro ha abbracciato una nuova vita, redimendosi da quella precedente e dando quindi prova della ricchezza interiore che l’arte e la bellezza possono regalare. Di pochi giorni fa le sue parole a Che tempo che fa: «Napoli è la città dell’altro Aniello che ho sotterrato definitivamente. Vorrei dire ai ragazzi di studiare e di avvicinarsi all’arte. Mi capita di pensare di essere nato due volte: il teatro e il cinema mi hanno partorito di nuovo».

Clarissa Egle Mambrini

Categorie: Cinema, Cronaca | Lascia un commento

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